LONDRA.
Avevo quasi
trent’anni. Ero in quel momento della vita in cui idealmente
bisognava decidere se buttarla a pieno sul lavoro. Se fare una
famiglia. Io non avevo scelto niente. Niente davvero. Mi ero solo
licenziato da quella maledetta azienda di lampade, che mi aveva
succhiato tutti i respiri, tutto il sonno, tutta la vita. Non era più
cosa, non era più tempo. Ci pensavo nelle birre chiare di ogni sera,
quando sei solo e ti chiedi come stai. Ci pensavo e avevo l’ansia.
Era tempo di cambiare. Così colsi la palla al balzo. Una mattina di
marzo, una mattina di quelle che tutto va storto, di quelle che forse
era meglio starsene a casa con le pagine sportive, qualche birra in
lattina bella fredda e due tramezzini al tonno. Insomma non avevo
scelto bene, quel giorno, e all’ennesimo difetto verbale di un capo
che mi conosce da dieci anni, non mi sono neanche incazzato. Nemmeno
mezzo sguardo storto. Gli ho solo detto: “Terry, il nostro amore è
finito. Sistema tutto. Le carte. I soldi. I giorni. Porto via la mia
roba.” Lui che tanto esigeva e voleva, non era di certo
un fesso, e mi propose mari monti e soldi. Ma non era una questione
economica. Qualità della vita. Chiuso li dentro. Con quei neon. Quel
monitor. I soliti difetti da troppi anni. Nessuna sfida che potesse
entusiasmare le mie giornate. Solo una lunga attesa prima del pub. Lo
pensavo tutte le mattine. Era proprio ora di cambiare. A carte
fatte. Presi una settimana per me. Per capirmi. Per volermi. Per
trovarmi di nuovo da fare. Nei pub di Londra c’è sempre qualcuno.
Anche di mattino. Non serve bere, per farti due chiacchiere. Per
parlar del più o del meno e non pensare a niente. Conobbi Vins. una
simpatica canaglia di mezza età che amava le pinte temperatura
ambiente di London Pride. E chiaramente l’odore acre dei pub. Si
era appena chiamato fuori dalla sua attività. In parte, almeno.
Aveva smesso di lavorarci fisicamente, ma aveva tenuto il controllo.
Il Potere. E una buona parte di azioni. La sua azienda faceva pontili
galleggianti. Quelli dei porti. Li montava e vendeva in tutto il
mondo. Ne parlava con grande dedizione, un amore quasi eterno, lo si
vedeva dalle sue mani. E dal suo volto. Vins mi prese in pancia.
Quando gli dissi che ero di Manchester, incollò la pinta al bancone
ed esclamò : “Oh Cristo, ragazzo mio, sei nato per andare nei
porti. Tu ci sei nato in un porto!” Sembrava tanto burbero
Vins, ma era facile capire subito di quale grande cuore era dotato.
Rimase colpito dalla mia storia, non tanto per il lavoro che facevo,
ma per l’azzardo, o forse il coraggio con cui mollai tutto. Eravamo
persone molto differenti. Ma ci univa la voglia di soddisfazione nel
fare le cose. Il dedicarsi in moto assoluto al risultato. Non tanto
per tirare sera, ma per fare qualcosa di davvero buono. Ne parlammo
tutta la mattina. Fino a quando ordinò due pinte. “Una è per te.
E per quello che ti sto per dire.” Girò lo sgabello, spalancò gli
occhi e con quelle sue manone piene di segni si stiracchiò un poco
la barba.
“Non so quanto tu
ne capisca di porti, banchine, ormeggi. Ma vieni da un porto anche
tu. Hai voglia e coraggio da vendere. E se vuoi farti qualche giro
nel mondo, io un lavoro per te l’ho.”
Non dissi mezza
parola. Mi limitai a fare un grande sorriso, annuendo col volto.
Alzata la pinta, sancito l’accordo. Avevo trovato qualcuno che
credeva in me, nella mia genuinità. Non avrei potuto deluderlo. O
quantomeno avrei provato a non farlo. La mattina seguente andai con
Vins in azienda, formalità burocratiche, firme, controfirme, e avrei
dovuto fare un breve corso, per ben capire cosa dovevo fare, vendere,
dire, discutere. Una formazione lampo, insomma. Nel giro di due mesi
avevo imparato quasi tutto. Vins seguiva personalmente gli sviluppi,
si interessava e faceva in modo non mi mancasse nessuna nozione. Ero
ormai un agente commerciale della “RockBak East London” società
leader nei pontili da diporto. Mi fecero conoscere qualche cliente,
qualche altro agente, in modo da capire bene la realtà delle cose,
ed essere ben inserito nel settore. I primi mesi di lavoro furono
duri. C’era da capire un sacco di cose, non troppo difficili ma per
me sconosciute. Vins mi accompagnava dai clienti in Inghilterra,
introducendomi e provando a lasciarmi fare. Dopo qualche tempo mi
resi conto che il mio punto forte non era conoscere il prodotto, ma
una grande capacità dialettica col cliente, che mi permetteva di
riuscire a vendere tutto come fosse pane. I numeri parlavano per me.
Nel primo semestre avevo venduto più di qualsiasi novello, e
santodio, i porti iniziavano a piacermi davvero. Il loro odore, la
gente che li frequentava, la purezza delle persone che incontravo.
Gente di porto, senza tanti fronzoli, persone con le palle che
puntavano dritto al sodo. Nel mio primo anno feci un lavoro
splendido. Pontili, bitte, gallocce, cime, ormeggi, catene, per
privati, per grosse aziende. Iniziavo a fiutare dove potevo vendere
ancora prima che potessero capire chi fossi. Era ora di andare
all’estero. Vins mi disse che ero pronto, che ormai avevo
abbastanza esperienza per non farmi fottere da nessuna parte del
mondo. Vai ragazzo, vai. Ero felice di questo, lui aveva
creduto in me. E lo stavo ripagando. Era proprio tempo della
mia prima trasferta. Destinazione: Durban, Sudafrica, Istituto di
biologia marina. Avrei dovuto stare almeno un mese, parlando con la
responsabile biologa; bisognava rifare tutto il pontile
dell’Istituto, e lei, assieme a me, avrebbe cercato la soluzione
migliore. Ero pronto.
DURBAN.
Il riflesso del sole
sull’oceano indiano spaccava di netto le lenti scure dei miei
occhiali, in quel pomeriggio d’inizio maggio. Faceva un caldo
fottuto e io mi guardavo attorno come un bambino, aspettando la
macchina che doveva ritirarmi. La vita sembrava calma e serena, anche
se il tasso di criminalità era molto alto. Al primo sguardo la gente
sembrava lenta, calma e felice. La macchina arrivò. Il taxi era una
vecchia Ford, fuori commercio da almeno dieci anni, con i sedili
cotti dal sole. Ma non era certo un problema. Bastava arrivare a
destino. L’autista, Zulu, parlava molto bene l’inglese, e mi
spiegò che avrei potuto vedere molte cose a Durban, ma di stare
attento, che di bianchi qui ce n’erano pochi, e le persone
ricordano molto bene il volto di chi combina cazzate.
Bell’avvertimento, pensai. Mi sistemai in un bell’albergo,
in centro, prenotato dalla società. Ogni tipo di confort e
lusso. Ed un open bar di tutto rispetto, con una spina dedicata di
guinness. Insomma tanto male non poteva andare. Feci subito un
controllo qualità della birra. Insomma, un mese era lungo e di sera
ancora non conoscevo nessuno. Meglio avere certezze. Cotto dal
viaggio e dal fuso orario sprofondai in un sonno ininterrotto. Il
giorno dopo, alle otto e trenta precise, ero davanti all’Istituto
di biologia, che poggiava la sua sede vicino al porto, dritto e
basato sull’oceano. Fumai una lunga sigaretta prima di entrare. In
qualche modo ero emozionato. Sicuro, ma emozionato. Entrai con passo
deciso, con la mia camicia azzurra portafortuna. Il caldo era
parecchio, ma c’era da star tranquilli. Mi presentai alla
reception, una signorina con abito rosso e delle scarpe in sughero mi
sorrise: “Ah, la stavo aspettando, avviso subito Meri luis, la
stava aspettando.” Sorrisi e ringraziai. Nell’attesa sistemai
degli incartamenti nella mia ventiquattrore, appoggiato al bancone
della reception.
“Mr, Stevens, la
stavo aspettando.”
Con una penna in
bocca e ancora di spalle risposi “Mi chiami pure Dave”; sistemai
la penna e mi voltai. Rimasi di pietra. Accanto alla signorina che mi
aveva accolto c’era Meri luis, in tutto il suo splendore.
“Bene Dave, sono
Meri luis. Finalmente! È davvero un piacere, ho un sacco di cose da
dirle.”
Il suo sorriso mi
fece intuire che mi ero ritrovato in un gigante ed eterno pasticcio.
Accidenti. Una donna bellissima, sui trenta, forse meno. Alta quasi
quanto me, lunghi capelli castano chiaro con dei riflessi biondi,
occhi luccicanti. Il camice bianco arrivava circa a metà coscia.
Sotto, pelle liscia, bianca, lucida. Gambe lunghe, di quelle da
ammattire. Magra ma con le forme giuste al posto giusto. Era bella
come una favola. I lineamenti del viso erano molto particolari, di
quelli che ti piacciono a dismisura oppure non ti dicono niente, ed
ero proiettato sulla prima ipotesi. Scarpe rosse. Tacco alto. Grande
portamento. Non sapevo bene cosa dire, ero rimasto folgorato
dal sorriso. Lei mi vide impacciato. “Allora vieni con me?”
“Certo. Certo che
si”, risposi. Sarei andato sulla luna. Figuriamoci se non la
seguivo. La sua voce, chiara e pacata, mi portò subito a vedere il
pontile. Vecchio e malmesso a dire il vero, c’era da fare un gran
lavoro. Ma ero li proprio per quello. Non dimentichiamolo.
“Voi inglesi lo
bevete il caffè?”
Sorrisi.
Comodi, nella stanza
adibita a bar, Meri luis spiegò in modo facile e comprensibile il
suo lavoro, le sue mansioni, i motivi che l’avevano portata in
quell’istituto, e le sue mani gesticolavano, ma poco; scarne e
seducenti, con le vene a vista. La sua voce era orgasmo. I suoi occhi
brillavano di luce propria, ci avrei fatto l’amore in tutta quella
luce. Lei parlava ed io lentamente capivo che stavo per finire in un
guaio chiamato innamoramento. Forse era soltanto colpa del caldo,
forse era solo tutta la sua bellezza. Era un dannato lavoro. Dave
resta calmo e ascoltala, continuavo a ripetermi.
I motivi per i quali
Meri luis aveva fatto strada in fretta erano solidi e basilari,
nell’ambiente biologo-marino. La
sua era la visione di un mondo post-fossile, rifondato attraverso
industrie e consumi improntati alla sostenibilità ecologica; era
convinta che ciò che dura e preserva l'ambiente s'imporrà anche
economicamente, mentre tutto ciò che minaccia la stabilità, come il
carbone o il petrolio, dovrà scomparire. Ma la sua filosofia non si
è affermata a Durban, lei era infatti di Pretoria, dove aveva
studiato biologia. Questo impiego lo aveva sudato. Ci metteva la mia
stessa dedizione nel lavoro. Ne ero assorbito, affascinato. Ero
incollato al movimento della sue labbra. Non capivo. Non capivo me
stesso, questa cosa non mi era mai successa. Questa donna mi stava
per scucire di dosso ogni corazza. E io stavo lavorando. Finito il
caffè. Fumammo. Una forse due sigarette. I discorsi erano solo
lavorativi. Mai personali. In fondo ci conoscevamo da poche ore. La
sua idea di come rifare il pontile era ottima. Piuttosto semplice e
funzionale. Aveva già fatto una bozza tutta sua. Ora, con il suo
supporto, avrei dovuto realizzare il progetto vero, con costi, pezzi,
legni e affini. Quel giorno parlammo solo di idee e materiali,
mi spiegò per filo e per segno ogni dettaglio, come voleva ogni
angolo, per facilitare il suo lavoro e quello del suo staff. Ero
tutto orecchi. Non mi sarei lasciato scappare mezza parola uscita da
quella bocca divina tinta di rosso. Il primo giorno andò cosi.
Tante parole e tanti caffè. Lei era tutto un sorriso. Tornai in
albergo. Dopo la doccia, qualche pinta. In veranda. Con gli altri
ospiti della struttura. Zitto e solitario. Meri luis come un martello
in testa. Da quanto non trovavo una donna cosi! Nemmeno la conoscevo,
ma ne ero ormai rapito. Non dovevo farmi pensieri strani. Troppe
sigarette in una sera sola. Non ero così confuso da tempo. Giorni,
mesi. Anni. Ingollai ancora due rosse, fredde quanto basta. Spensi
l’ultima, e andai a dormire. Con quelle gambe stampate dritte sulla
testa. L’indomani rieccomi, sempre li. Progetti alla mano,
prezzari, misure, materiali. Lei non negava mai un sorriso, ma
continuava a restare abbottonata alla sua posizione. Ora dopo ora.
Trovavo dei dettagli in lei incredibili, la sua mimica, il suo modo
di parlare, i suoi lineamenti in base se i capelli erano sciolti o
legati. Il suo modo di darmi ragione o torto. Pontili galleggianti un
cazzo. Questa volta ero cotto. Me lo stavo solo negando. La prima
settimana si consumò in fretta, riuscivo soltanto ad osservarla
senza riuscire a fare altro. “Cazzo, dille qualcosa, Dave, fai
qualcosa!”. Ninete. Fermo come marmo, forse impaurito dal possibile
rifiuto. E lei si complimentava per le mie idee. Pazzesco.
La
domenica non si lavorava. Giornata libera. Dal lavoro. Ma non dai
pensieri. Polo blu. Jeans chiaro. Sole formato maxi. Pacchetto
pieno. Una bella camminata nel viavai di gente sulla Golden Mile non
mi avrebbe fatto male. Chiamata anche Waterfront, era una camminata
di quasi un miglio sul lungomare. Vista eccezionale, hotel di lusso,
parchi naturali, ristoranti. Cercavo soltanto di non pensare. Feci
avanti indietro almeno tre volte, prima di fermarmi in un bar. Tavoli
all’aperto e arredamento bianco, di quelli che in Inghilterra
nemmeno a pagare. La cameriera metteva in mostra quasi tutto, ma non
ero molto concentrato. Mi limitavo a ordinare birre chiare. Neanche
male a dire il vero. Posacenere pieno e sole in fronte. Avrei
voluto sapere dov’era. Meri luis. Dopo una breve sosta in bagno,
decisi di cambiare bar, gente, aria. Mi spostai qualche metro più in
la. Altro giro. Altra cameriera. Altro bar. Soltanto la mia faccia
era la stessa. Presi l’ennesima birra. E trovai un quotidiano.
Gente strana a Durban, tutta rapine e sport. Trafili interessanti
sulla carta a petrolio. Ne accesi una. Il sole del pomeriggio era
maledettamente caldo. Non ero uno da spiaggia. Si sta meglio nei bar.
Più gente. Meno lamenti. E hanno sempre da bere. Ero tra l’articolo
della signora derubata al terzo piano e la pagina centrale degli
eventi cittadini, il tanto aspettato concerto zulu alle porte del
giardino botanico. Uno dei più grandi del mondo. Diedi una sorsata,
era quasi finita anche questa. La signora del tavolo accanto mi
chiese da accendere. Le passai la fiamma senza togliere lo sguardo da
cosa stavo leggendo.
“Hey,
Dave, che ci fai qua?”
Questa
voce la conoscevo. Mi girai di scatto. Ed ecco il sorriso che mi
stava spaccando testa e cuore, in carne ed ossa.
“Leggo
il giornale.” L’unica cosa che riuscii a rispondere. Meri luis,
bellissima. Finalmente senza quel camice da laboratorio, con un jeans
stretto quanto un guanto, una canotta arancio e crema. Delle
ballerine. E quei capelli tutti al vento. Era con una sua amica. Che,
detto ora, nemmeno ricordo come fosse vestita o svestita.
“Insomma,
potete sedervi!”, proposi. Andò bene. Presero una birra anche
loro. Oddio che dovevo fare. Che ne so. Agitazione e qualche birra
addosso. Ma il suo sguardo era diverso. Meno professionale, forse più
aperto. Qualche frasi di circostanza. Victoria, l’amica si chiamava
Victoria. Chissenefrega. Speravo solo venisse rapita al più presto.
Birra, sigarette. Sorrisi. Ed era il mio giorno fortunato. Victoria
doveva andarsene, il fidanzato l’attendeva.
“E
tu, Meri luis, non hai un fidanzato?”
Che
bella domanda del cazzo. Si si. Rispose con un “No.” Secco.
Distinto.
“Perfetto,
allora, io e te ne prendiamo ancora una. Di birra. Eh?” Scosse le
spalle e annuì.
La
conversazione si fece più personale. Toni non più così seri, ma
disponibili e aperti. Insomma, mi stava solo confermando quanto mi
piaceva. La sua calma era la stessa di quando lavorava, erano gli
scenari ad essere più ampi. Sarei morto su quella sedia. In quel
bar. Meri luis. Era interessata anche lei, nessuna domanda banale,
niente cazzate. Orecchie drizzate e sorsate fatte bene. Altra birra.
Altri discorsi. I suoi studi. Le sue passioni. Il suo bisogno di non
avere una relazione con un uomo. Ero incollato, di me avevo parlato
poco, quanto basta, ma lei aveva capito. Ogni singola parola. Ogni
singola intenzione.
“A
questo punto ceniamo assieme Dave, ma prima facciamo due passi al
concerto, dai!”
Le
potevo dire di no? Eccoci incamminati verso il giardino botanico. Lei
era allegra e spensierata, e camminava disinvolta. Avrei voluto
infilarmi nelle pieghe di quei jeans. Ma non ci pensavo. Godersi il
momento. Il sole. La compagnia. In fondo non sarebbe successo un
bellissimo niente. E tra due spiegazioni delle vie e una sorta di
mini lezione sulla musica zulu eccoci in bocca al giardino botanico.
La musica era tambureggiante. Baccano e colori. Gente, sudore. Balli.
Fuori dalla mia ordinaria concezione, Meri luis ora era proprio lei,
non la biologa, ma la ragazza scalmanata persa dentro i balli.
Sorrisi eterni e mani che mi tiravano dentro quel ballo. Un bacio.
Denso. Bagnato. Vivo. Di quelli che li vorresti sempre così. Lei
sorrideva, io non sapevo più cosa pensare. Non era nei piani.
Stupore, e il mio sorriso divenne grande. Fine dei balli. Sigaretta
accesa. Camminiamo. Nessun accenno di parola sul bacio. Sarà stato
il momento, pensavo. Mettiti tranquillo e non fare stronzate, Dave.
Dai.
“Insomma,
Dave, è il caso di fare una doccia, non credi? Non ceneremo mica
così!”
Mi
tolgo gli occhiali. Ho la faccia sudata e scivolano sul naso.
“Ok,
allora vado in albergo. Mi cambio. Dove vuoi che ci vediamo?”
Lei
scoppiò in un sorriso. E si mise a sedere per terra. Proprio in
mezzo alla strada. Io ero nel pieno della sigaretta. Non capivo.
Aspettavo.
“Ceniamo
da me, testone! Ma non lo capisci?”
“Cosa?
Cosa dovrei capire Meri luis?”
“ Non
capisci che mi piaci? La doccia la fai da me. Ti cambi domani!”.
Incredibile.
Non riuscivo a muovere un muscolo, ma dentro di me stava esplodendo
la gioia. La rivoluzione. Ero in pieno trasporto e delirio. Che
giornata ragazzi miei. La seguivo allegro, e iniziavo a pensare che
forse quel bacio non era destinato a restare solo un bacio. Tabacco
fumante in bocca, pochi passi ancora. Due vie più dietro arrivammo
a casa di Meri luis. Era una casa a schiera. Dentro una via
tranquilla, piccolo giardino ordinato. L’esterno era bianco. Col
tetto scuro e le ringhiere in ferro battuto. Classica, ma non troppo.
Dentro l’arredo era minimo, i colori dominanti erano tre. Il
rosso, il bianco e il nero. Ma sembrava ci vivesse da poco, nessun
segno di permanenza, oltre al mobilio nessuna foto, nessun quadro,
niente di troppo personale che solitamente si mette dentro una casa.
“ ci
vivo da poco. Col tempo la farò più mia, come vedi ho ancora la
roba nei cartoni”.
Non ci
feci troppo caso. Ma alla fine era davvero un tipo strano. Ma se cosi
non fosse non ci avrei perso la testa. Meri luis , prese una
bottiglia di vino. Via il tappo. Due bicchieri. Sdraiati sul grosso
tappeto che copriva quasi per intero il pavimento del salotto. Il
divano bianco, era alle nostre spalle. Il vino scendeva freddo dentro
lo stomaco. I baci diventavan sempre più caldi. Invece. Ci
strappammo di dosso i vestiti. Lei era forse più bella nuda che
vestita, le sue forme in evidenza non erano volgari nemmeno un
briciolo, quanta eleganza in quel corpo, le curve perfette,
omogeneità della sua pelle e quei capelli che le coprivano la
faccia, mentre si mordeva un labbro. Avevo le sue mani addosso. Stavo
per uscirne pazzo, mentre non smettevo di graffiarle a mio modo la
schiena. Avrei voluto toccarla tutta contemporaneamente. Insomma ci
stavamo per dare un gran da fare. Ci trasferimmo in doccia. Si. La
famosa doccia da fare, che era grossa quasi come la mia camera
d’albergo. Una di quelle docce moderne. Ci puoi stare in due. In
tre. Seduto. Sdraiato. Tutta in legno. Il vapore e l’acqua calda e
due corpi che erano ormai incollati. Incastrati e non solo per
metafora. C’era solo il rumore dell’acqua che scendeva. I miei
respiri. Lei che ansimava. Non riuscivo a smettere di morsicarla,
mentre l’atto prendeva forma tra occhi chiusi e versi , piacere
intenso e nessun lavoro mentale. Poi di colpo mi spinse via. Contro
la parete della doccia, io non cambiai sguardo. Nessuna parola. Mi
tornò contro e con le mani contro il petto mi dava dei piccoli
morsi.
“
vieni con me a Parigi. Dai. Partiamo domani, che resti a fare qui
senza di me.”
Poi
scoppio a ridere. Fuori dalla doccia. Asciugamani puliti. Una
sigaretta a capelli bagnati. Poi comodi sul letto, e dopo
conversazione a risate. Rieccoci di nuovo senza niente addosso. Fare
l’amore prima di cena mette un certo appetito. Lei cucinò per me.
Pollo al curry con del riso, saltato, birra fresca, poi delle
fragole. Il tavolo della cucina era rosso, e non avevo mai visto una
stanza così pulita in vita mia.
“senti
oggi è andata cosi Dave. Domani dobbiamo lavorare, tra me e te non
so bene cosa accadrà. Ora dammi un bacio. Stringimi un po’. E poi
io voglio dormire.”
Feci
proprio cosi. Un bacio. Stretta tra le mie braccia. Pulito e
profumato. Rimessi i vestiti addosso ero per le vie in cerca del mio
albergo. Tanto allegro tanto euforico tanto pensieroso. E ora? Ora
che cazzo sarebbe successo. L’indomani un casino, avremmo dovuto
lavorare assieme. Per assurdo Meri luis non sapevo nemmeno chi fosse.
Mi aveva solo rapito l’animo. Forse anche la testa ora. A pensarci
bene. dovevo solo stare calmo. Una bella dormita avrebbe sistemato
ogni pensiero. Forse con due cognac prima, certo, ma l’indomani
avrei fatto come se nulla fosse accaduto.
LUNEDI.
Arrivai
presto all’istituto, altra doccia fatta, vestiti puliti, la barba
fatta quella no. Ma l’aria di festa dentro me non era passata. Ero
di ottimo umore. Entrai a passi veloci. Il sole era davvero caldo.
Entrai sorridendo.
“buongiorno
Dave, come stiamo?” mi sorrise la simpatica ragazza in reception.
“tutto
benone cara. Meri luis è già qua?”
“ehm
… veramente… ma non lo sai?”
Rimasi
fermo qualche secondo. “non sai cosa? Dimmi.”
Appoggiò
la cornetta del telefono con la quale stava giocando. “ non lo sai
che da oggi Meri luis non lavora più qua.?”
Di
ghiaccio. Mollai la ventiquattrore sul pavimento. Le mani in tasca
alla ricerca di qualcosa da fumare.
“dove
è andata? Dimmi dove.”
“Dave
lei ha vinto una borsa a Parigi. era importante per lei, ma credevo
ti avesse…. Detto.. che.. ha lasciato questa busta per te. Comunque tieni. “
Presi
la busta senza dire una parola. Ero sconcertato. Forse per il film
che mi ero fatto in testa, forse mi rendevo conto perché in casa la
roba era inscatolata. Perché stava partendo! E quella frase su
Parigi. Non era una battuta. Era vera. Maledizione. Che stronzo. Ora
le cose mi si facevano più chiare. Forse no. Mari luis accidenti.
Dovevi proprio farmi innamorare e poi sparire? Ma forse era il suo
marchio. Ero suo. E non le servivo. È andata. Senza dirmi niente.
Facendomi capire tutto.
Sigaretta.
Seduto. Mi aveva lasciato un pacco con tutte le istruzioni per il
lavoro. Progetto già finito. Era solo da mettere in opera. Era solo
da mandare al costruttore. Per la prima volta da quando ero arrivato
Londra mi sembrava cosi lontana e iniziava a mancarmi. Come l’odore
dei pub e la mia gente. Ma non come Meri luis. Sfogliavo il
progetto. Malinconico. Cadde per terra un biglietto giallo. Lo
raccolsi. Sopra c’era un bacio col rossetto. E questo indirizzo :
hotel alexandrine opera, 10 rue de moscou 75008 Paris.
Feci
un sorriso e un respiro profondo. Era lunedì , faceva caldo. Il
pacchetto di sigarette era pieno.